Blu, finalmente! Non uno, molti blu, azzurri, verde mare, una festa per gli occhi -e palme giganti, ancora, verde su verde, verde su giallo. Maceiò è l'imbarazzo della scelta, in quale spiaggia vuoi andare oggi?
Read MoreCuiabá, 1ero de Janeiro 2005
Cuiabá é o Inferno, dunque. Forse è vero, fa caldo e umido, ed è tutto chiuso perché festa. Solo poche ore prima che riparta l’aereo, vado al nord-este e vado al mare, dopo tanto verde un po’ di blu mi farà bene. Piove e il caldo umido ti si scioglie addosso, piove acqua calda che subito evapora e ti lascia sudato come prima. Il tassista mi mostra una, poi due chiese diverse, chiuse anche loro, e si dispiace perché sua figlia non si sposerà là dentro come lui aveva sognato, non è cattolica ma del resto, dice, ognuno ha diritto di fare come si sente. Vero, concordo. Peccato per la coreografia, vocé quiere tomar foto? No, grazie, ho finito la pellicola – mento per non deluderlo, è così appassionato di questa chiesa rosa che a me ricorda tanto Disney World, non la vorrei tra i ricordi di viaggio. Mi mostra anche un distretto militare, ce ne sono quattro per via della vicinanza con la frontiera Boliviana ma, dice, non servono a nulla perché la Bolivia è uno stato piccolo che non ha motivo di attaccar briga e qui, graças à Deus, não temos nada.
Tanta cordialità chiacchierona mi costa qualcosa in più ma pazienza, penso, gli farà comodo qualche reais extra.
Jardìm, Mato Grosso do Sul, 29 Dezembre 2004
Questa caipirinha non è un granché, ma è così tipica.
Jardìm, Mato Grosso du Sul, un paesone nel niente di chilometri e chilometri di verde e di animali. Oggi ne abbiamo percorsi più di trecento, di chilometri – da Campo Grande, che è grande, come il nome suggerisce, a qui. I primi cento-centocinquanta attraversano le fazendas, immense distese di campi coltivati a soia (mi spiegano, per esportarli in Giappone. In Giappone?) di cui vedi l’inizio, ma non la fine. Poi comincia il parco nazionale, allo collinare di una impercettibile collinetta, e il paesaggio cambia. Da qui a lì, tutto diverso. Al posto dei prati senza fine comincia un saliscendi di strada nel verde, un po’ più scuro perché la vegetazione cambia e si riempie di alberi ad alto fusto, palme, manghi forse, cose così. I paesini spuntano dal niente verde come se fossero strane convenzioni geografiche, dopo aver percorso chilometri a centinaia incontrando solo alberi e qualche enorme camion, eccola lì, spunta una città, un agglomerato di case uguali basse che copre un reticolo di strade. Come se ad un determinato punto, per uno strano capriccio o una segreta convenzione, la strada da dritta nel niente verde che è, decidesse di ramificarsi in una regolare rete quadrangolare, una sorta di accampamento romano con cardo e decumano, come il delta ordinato di un fiume, e lì spuntassero le case e i negozi con le scritte colorate.
Hanno nomi che sono tautologie questi paesini, Jardìm, Bonito, oppure nomi indigeni di cui quasi nessuno sa dirmi il significato. E sono tutti uguali, mi sembra.
Strano a dirsi, l’asfalto è peggiore in città.
Insisto con Adalberto per visitare il Pantanal, sono venuta apposta fino a qui. Non mi sembra entusiasta ma mi accontenta, e prendiamo la strada sterrata per Miranda, settanta chilometri di terriccio rosso in mezzo al solito verde. Per quanto strano possa sembrare a me, in questo posto è normale che solo alcune strade siano asfaltate. Sulle altre si viaggia ugualmente, camion e auto senza porsi domande, a una media di sessanta all’ora sollevando polvere e sobbalzando a ogni buca. Sembra di essere al principio del mondo, e che le poche persone siano lì per accidente – eppure, non c’è niente di più normale di trovarsi lì, nel mezzo e circondati dal niente verde, magari in una modernissima boutique per turisti nel centro di Bonito. Che con quel nome-tautologia, è davvero molto grazioso.
Un residuo degli inizi del mondo è anche il Burraco dos Araras, un enorme cratere dove vivono as Araras, bellissimi pappagalli rossi o blu. Stanno nascoste in mezzo ad alberi e rampicanti, e mi domando chissà come mai hanno scelto questa voragine, forse perché resta sempre al fresco.
Mi sembra che la natura qui sia esuberante, persino esagerata: esagerate le foglie enormi, troppo enormi, esagerati i fiori di ibiscus che farebbero morire d’invidia la mia mamma con quella sua rattrappita versione da appartamento, esagerate le piantine di ananas, i rampicanti, tutto. Le guide ecologiche sono bravissime, preparate, competenti, e mi vien da pensare che è un bene che tanta bellezza sia custodita dai brasiliani, sono così consapevoli del meio ambiente e della cura che si merita. Anche nella fazenda più sperduta, una meraviglia di legno e pietra che non ha niente da invidiare a un casale toscano, meravigliosa oasi di frescura dopo tanta polvere rossa, anche qui si fa la raccolta differenziata. L’acqua non manca di certo, eppure ti invitano a non sprecarla. A non usare troppa carta per asciugarti le mani, due fogli sono più che sufficienti – ed è vero, precisione elvetica. Mi piace molto l’accostamento di tutte queste attenzioni così avanzate e moderne con la primitività dell’ambiente intorno, che resta selvatico. E molto bello.
Anche il Pantanal è un mare di verde, ma più chiaro. C’è il verde delle piante acquatiche, il verde-giallo delle risaie, il verde-erba dei pascoli. È davvero un po’ noioso, come temeva Adalberto – ma pieno di animali selvatici, che si vedono meglio nell’escursione notturna: jacaré, onças, capibara, cerolos, coelhos e tanti tantissimi tipi di uccelli migratori. Caldo e un po’ monotono il safari diurno, ma certamente ne vale la pena. E quello notturno, vale decisamente il viaggio.
“Corumbá è o Purgatório, Cuiabá o Inferno”, così mi dicono a cena, è l’ultimo dell’anno e a casa di Adalberto si mangia cordero, agnello, con manioca, come fossero patate lesse. La famiglia di Adalberto è strana, o forse no, è solo tipicamente Brasiliana. Il padre è tedesco, di cognome fa Müller, e di nome fa anche lui Adalberto - infatti il mio amico è Junior, Adalberto Junior Müller, per gli amici Junior e basta. Ora è molto vecchio e malato, lo assistono in casa con due domestici, un assistente e una donna di casa. La madre, Dona Chela, è originaria del Paraguay e ora gira per casa con una sonda per il drenaggio della bile, o così capisco. Ha avuto complicazioni in un intervento per restringere lo stomaco, ma non sembra preoccupata. Bontà sua. Mi sembra che modificare il corpo chirurgicamente sia considerato molto più come un’operazione di routine che da noi. Lei non si preoccupa, forse perché uno dei figli è medico, chi lo sa. Gli altri, di figli, sono tutti sparpagliati per il mondo: Germania, USA, Irlanda del Nord, Brasile, e la sua vita potrebbe essere una telenovela. Mi spiegano che un detto recita: per essere realizzata, una persona dovrebbe piantare un albero, fare figli, e scrivere un libro. Questo ultimo le manca, ma può sempre chiedere ad Adalberto di farlo per lei. Brindiamo, un po’ amari e non so perché. Non mi piace tanto il capodanno, nemmeno qui.
Frankfurt am Main - São Paulo, 24 Dez. 2004
Sali sull'aereo della Varig ed è già Brasile. Comincia qui la festa, musica allegra - forse una bossa nova? la mia troppa ignoranza non mi aiuta - e già hai voglia di ballare, via, sparita in un battere e levare la stanchezza di ore di bivacco in aeroporto, spariti i bambini che frignano perché stanchi di aspettare, sparito anche il retrogusto immondo del tramezzino per germanici che ho ingurgitato senza indagare sul ripieno.
Piccola considerazione: i tedeschi forse sono un popolo privo di papille gustative, e dalle enormi mandibole. Il mio tramezzino (al salame, dichiarava la confezione. Mentendo) era talmente spesso da non riuscire ad addentarlo. Ed il ripieno, oltre che di un paio di esangui fettine di salame industriale, faceva orgogliosa mostra di: uovo sodo, maionese in quantità, mais o soia impossibili da distinguere, altra verdura mimetizzata che avrebbe potuto essere cetriolo, una probabile spruzzatina di aceto. Moderatamente schifoso. Del resto, mangiare cibi immangiabili fa già vacanza. Ma intanto invidiavo i signori accanto a me, che estraevano da una sacca torte e panini caserecci con evidente soddisfazione. Beati loro... famiglia bizzarramente assortita, german-nipponica o german-asiatica in generale, un melting pot teuto-nipponico che può ricordare alleanze belliche ormai passate. In realtà di famigliole analoghe ne ho osservate più di una, in queste ore di attesa, e mi dico che allora, forse (seconda considerazione), non è poi una cosa tanto bizzarra, almeno in Germania. Chi sa.
Infine, terza considerazione. Un tempo non lontanissimo, diciamo una ventina di anni fa, viaggiare in aereo era una cosa fuori dall’ordinario, un lusso che solo in pochi si potevano permettere. Ed infatti io non ero tra i pochi fortunati. Adesso è diventato più alla portata di tasche comuni, e te ne accorgi subito non appena metti piede in aeroporto. Famigliole intere con tonnellate di bagagli al seguito si spostano in aereo, bimbi compresi. Gli italiani in genere si distinguono per la caciara e per il cattivo gusto, e pertanto li evito come la peste (una volta, aeroporto di Copenhagen, un italiano si è avvicinato per chiedermi in inglese di fargli una foto. Manco fossi straniera!). Siccome però adesso si prende l’aereo quasi come si prendeva il treno, le hall somigliano sempre più a sale d’aspetto. Dei treni, appunto. Gente sdraiata a bivaccare dove capita, fracasso, un po’ più sporcizia di quello che sarebbe lecito aspettarsi in una aeroporto. Specialmente visto il costo dei biglietti.
E poi, visto che osservo. Seduto per terra accanto a me c’è un ragazzo più o meno della mia età, bello, con tratti somatici da Apache- zigomo alto, capelli neri, aria fiera. Legge il Times, come faccio io. Si sofferma sugli articoli sui quali anche io mi ero soffermata, né più né meno. Estrae un pc, uguale al mio, Think Pad IBM. E si mette a giocare a free-cell, come farei io se avessi qui il pc. Dopo un po’ traffica con delle foto, per ingannare l’attesa. Considerazione. Siamo poi così diversi, se abbiamo passatempi così fotocopia. Sicuramente se glielo chiedessi mi risponderebbe che sì, anche a lui piace il cabernet sauvignon e la cucina internazionale. Non ho con me fotocamere o cellulari di ultima generazione, altrimenti sicuro che sarebbero uguali ai suoi. Scommetto che ci sono almeno dieci posti al modo che entrambi abbiamo visitato, stessi film visti, stessa musica ascoltata. Praticamente, siamo due consumatori quasi intercambiabili – e non so nemmeno di che Paese sia il suo passaporto. Non so, non mi sono ancora abituata bene all’idea che in realtà ci sia così poca differenza nei consumi, laddove invece ce ne sono di enormi nelle abitudini, lingua, usanze. O forse no?
Ultima nota, si vede che mi sto proprio annoiando in questa attesa. La prima volta che ho visto l’aeroporto di Frankfurt era il 1991, e mi aveva colpito il sistema di raccolta differenziata che già all’epoca ti costringeva a decidere se stavi buttando carta, spazzatura qualunque, vetro o imballi per alimenti. In tutti questi anni il sistema è rimasto lo stesso, stessi i cestini. Sarei curiosa di sapere quanto hanno riciclato, dev’essere un bel po’ visti i tanti passeggeri. Chissà se qualche istituto statistico teutonico ci ha pensato, a fare i conti.