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Jardìm, Mato Grosso do Sul, 29 Dezembre 2004

Francesca Varisco November 2, 2017

Questa caipirinha non è un granché, ma è così tipica.

Jardìm, Mato Grosso du Sul, un paesone nel niente di chilometri e chilometri di verde e di animali. Oggi ne abbiamo percorsi più di trecento, di chilometri – da Campo Grande, che è grande, come il nome suggerisce, a qui. I primi cento-centocinquanta attraversano le fazendas, immense distese di campi coltivati a soia (mi spiegano, per esportarli in Giappone. In Giappone?) di cui vedi l’inizio, ma non la fine. Poi comincia il parco nazionale, allo collinare di una impercettibile collinetta, e il paesaggio cambia. Da qui a lì, tutto diverso. Al posto dei prati senza fine comincia un saliscendi di strada nel verde, un po’ più scuro perché la vegetazione cambia e si riempie di alberi ad alto fusto, palme, manghi forse, cose così. I paesini spuntano dal niente verde come se fossero strane convenzioni geografiche, dopo aver percorso chilometri a centinaia incontrando solo alberi e qualche enorme camion, eccola lì, spunta una città, un agglomerato di case uguali basse che copre un reticolo di strade. Come se ad un determinato punto, per uno strano capriccio o una segreta convenzione, la strada da dritta nel niente verde che è, decidesse di ramificarsi in una regolare rete quadrangolare, una sorta di accampamento romano con cardo e decumano, come il delta ordinato di un fiume, e lì spuntassero le case e i negozi con le scritte colorate.

Hanno nomi che sono tautologie questi paesini, Jardìm, Bonito, oppure nomi indigeni di cui quasi nessuno sa dirmi il significato. E sono tutti uguali, mi sembra.

Strano a dirsi, l’asfalto è peggiore in città.

Insisto con Adalberto per visitare il Pantanal, sono venuta apposta fino a qui. Non mi sembra entusiasta ma mi accontenta, e prendiamo la strada sterrata per Miranda, settanta chilometri di terriccio rosso in mezzo al solito verde. Per quanto strano possa sembrare a me, in questo posto è normale che solo alcune strade siano asfaltate. Sulle altre si viaggia ugualmente, camion e auto senza porsi domande, a una media di sessanta all’ora sollevando polvere e sobbalzando a ogni buca. Sembra di essere al principio del mondo, e che le poche persone siano lì per accidente – eppure, non c’è niente di più normale di trovarsi lì, nel mezzo e circondati dal niente verde, magari in una modernissima boutique per turisti nel centro di Bonito. Che con quel nome-tautologia, è davvero molto grazioso.

Un residuo degli inizi del mondo è anche il Burraco dos Araras, un enorme cratere dove vivono as Araras, bellissimi pappagalli rossi o blu. Stanno nascoste in mezzo ad alberi e rampicanti, e mi domando chissà come mai hanno scelto questa voragine, forse perché resta sempre al fresco.

Mi sembra che la natura qui sia esuberante, persino esagerata: esagerate le foglie enormi, troppo enormi, esagerati i fiori di ibiscus che farebbero morire d’invidia la mia mamma con quella sua rattrappita versione da appartamento, esagerate le piantine di ananas, i rampicanti, tutto. Le guide ecologiche sono bravissime, preparate, competenti, e mi vien da pensare che è un bene che tanta bellezza sia custodita dai brasiliani, sono così consapevoli del meio ambiente e della cura che si merita. Anche nella fazenda più sperduta, una meraviglia di legno e pietra che non ha niente da invidiare a un casale toscano, meravigliosa oasi di frescura dopo tanta polvere rossa, anche qui si fa la raccolta differenziata. L’acqua non manca di certo, eppure ti invitano a non sprecarla. A non usare troppa carta per asciugarti le mani, due fogli sono più che sufficienti – ed è vero, precisione elvetica. Mi piace molto l’accostamento di tutte queste attenzioni così avanzate e moderne con la primitività dell’ambiente intorno, che resta selvatico. E molto bello.

Anche il Pantanal è un mare di verde, ma più chiaro. C’è il verde delle piante acquatiche, il verde-giallo delle risaie, il verde-erba dei pascoli. È davvero un po’ noioso, come temeva Adalberto – ma pieno di animali selvatici, che si vedono meglio nell’escursione notturna: jacaré, onças, capibara, cerolos, coelhos e tanti tantissimi tipi di uccelli migratori. Caldo e un po’ monotono il safari diurno, ma certamente ne vale la pena. E quello notturno, vale decisamente il viaggio.

“Corumbá è o Purgatório, Cuiabá o Inferno”, così mi dicono a cena, è l’ultimo dell’anno e a casa di Adalberto si mangia cordero, agnello, con manioca, come fossero patate lesse. La famiglia di Adalberto è strana, o forse no, è solo tipicamente Brasiliana. Il padre è tedesco, di cognome fa Müller, e di nome fa anche lui Adalberto - infatti il mio amico è Junior, Adalberto Junior Müller, per gli amici Junior e basta. Ora è molto vecchio e malato, lo assistono in casa con due domestici, un assistente e una donna di casa. La madre, Dona Chela, è originaria del Paraguay e ora gira per casa con una sonda per il drenaggio della bile, o così capisco. Ha avuto complicazioni in un intervento per restringere lo stomaco, ma non sembra preoccupata. Bontà sua. Mi sembra che modificare il corpo chirurgicamente sia considerato molto più come un’operazione di routine che da noi. Lei non si preoccupa, forse perché uno dei figli è medico, chi lo sa. Gli altri, di figli, sono tutti sparpagliati per il mondo: Germania, USA, Irlanda del Nord, Brasile, e la sua vita potrebbe essere una telenovela. Mi spiegano che un detto recita: per essere realizzata, una persona dovrebbe piantare un albero, fare figli, e scrivere un libro. Questo ultimo le manca, ma può sempre chiedere ad Adalberto di farlo per lei. Brindiamo, un po’ amari e non so perché. Non mi piace tanto il capodanno, nemmeno qui.

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